martedì 16 ottobre 2007

Domenica


Sono stata avvisata per tempo, sabato sera. Sapevo già che cosa mi aspettava. Ma, quando ti ho visto in ospedale domenica mattina è crollata ogni certezza.

Avevo già previsto tutto: sarei arrivata presto e avrei stressato i medici fino ad avere le risposte che mancavano e ti avrei riportata a casa alla velocità della luce.

Domenica mattina sono piombata a casa tua, ho lasciato la mia bambina e ho preso mia sorella e insieme siamo arrivate da te. Alla domanda chi delle due dovesse entrare per stare con te non ci sono stati tentennamenti: non ho dato il tempo a mia sorella nemmeno di prendere fiato. Ho aperto la porta e sono entrata io. Ti ho trovata sveglia: gli occhi, ormai piccoli, mi hanno trovata subito. Come sempre ormai non mi hai riconosciuta. Non sai più chi sono da tempo. L'occhio tumefatto e i punti sulla fronte coperti dal cerotto. Ti chiedo come hai fatto. E che stavi facendo quando sei caduta. So che non mi risponderai. Hai smesso di parlare. E'difficile per me, invece, smettere di chiederti le cose, di raccontarti e di parlarti come se tu mi potessi ancora comprendere. Non ci riesco. E' un filo che ci lega e che non posso tagliare. Parlo io. Per tutte e due, se tu non puoi più.

Infatti ti faccio le domande e mi rispondo. Poco distante c'è una ragazza con delle escoriazioni dovute ad un incidente d'auto. E' straniera. Non parla e non capisce bene la nostra lingua. Mi guarda curiosa. Ci sono due signore anziane, arrivate lì probabilmente per qualche malore legato all'età. A me sembra che stiano anche meglio di me. Mi guardano in modo strano.

Torniamo a noi. Hai una pelle così liscia. Quelle poche rughe che avevi sono tornate indietro. all'improvviso si apre una porta e ti lascio all'istante per precipitarmi fuori. Fermo la dottoressa e chiedo che cosa stiamo aspettando e perchè non ti posso ancora portare via con me. Mi dice che aspettiamo il risultato della Tac.

Aspettiamo.

Ritorno. Non c'è nemmeno una sedia. Mi appoggio al muro e comincio ad accarezzarti. Mi guardi: le tue pupille si spostano percettibilmente da uno all'altro dei miei occhi. Ogni tanto sollevi silenziosamente la testa verso di me ma non dici niente. Sono io che non smetto di dirti che devi stare giù, che presto arriverà la risposta degli esami, che tra poco ti porterò a casa e bla bla. Non smetto un attimo. Intanto ti accarezzo il viso. E ti dico ancora una volta che va tutto bene. Mi sento osservata da te. A volte, in verità, il dubbio mi viene. Penso che tu te ne sia andata mentalmente per un po' e che adesso sei di nuovo tu, ma il corpo non ha reagito con gli stessi tempi della mente e ormai non riesci più a trovare un modo per comunicare. Ma forse sono solo io che mi illudo che possa essere così.

A forza di accarezzarti, ti calmi e ti addormenti. Ne approfitto per sgattaiolare fuori dalla saletta e per dire a mia sorella che tutto va bene. Deve stare tranquilla. Mi chiede se voglio il cambio. La risposta la conosce già e dopo qualche secondo sono di nuovo accanto a te.

Faccio appena in tempo a riappoggiarmi al muro che spalanchi gli occhi e hai una specie di convulsione. Forse devi solo dare di stomaco. Non riesco a girarti e chiedo aiuto. Arriva un infermiere. Ci pensa lui. Adesso stai meglio e lui se ne va. Solo qualche secondo. Poi torna. Mi dice che ha controllato la cartella: sei caduta e ti sei fatta male, ma la cosa che lo ha colpito è l'Alzhaimer. Mi chiede da quanto stai così, mentre non riesce a toglierti lo sguardo di dosso. Gli rispondo che sono 7 anni.

Eccolo. Lo sguardo che non ti abitui mai a sentirti addosso: mi fissa con un misto di timore e di compassione. Mi sento come se mi avesse colpito con un pugno allo stomaco. Mi si annoda la gola e per non piangere reagisco al contrario e abbozzo un sorriso. Devo aver fatto una specie di smorfia. E' quasi imbarazzato. Non sa che dire. Si gira e se ne va. Ma andando via fa un ulteriore gesto di pietà: accosta la porta e ti nasconde alla vista degli altri. Rimane solo una piccola fessura aperta. Tirando la porta scorrevole ha tirato via ogni mia estrema difesa. Crollo e comincio a piangere senza poter smettere. Non ci sono singhiozzi. E' un pianto silenzioso. Le lacrime scendono e la gola sembra che graffi.

Quando ti guardo vedo che tu guardi me. Stringi gli occhi e serri la bocca. Quando li riapri c'è una lacrima appesa. Non scende. Non posso credere che stai piangendo per me. Mi asciugo le lacrime e asciugo anche la tua. Unica.

Ti accarezzo ancora e ti massaggio le gambe e le braccia per quasi due ore. Senza smettere. Mi ferma la voce della dottoressa che dice che la Tac è negativa. Tentenna e aggiunge: a parte la lesione che sua madre ha già.

Non capisco se tutto questo imbarazzo sia per il tuo o il mio dolore.

Non importa.

E' ora di tornare a casa. Mamma.

1 commento:

Cangaceiro ha detto...

Credo che non ci sia parole che valga la pena dire in questi casi. Non sono un medico, nè un dottore e neanche un indovino; ma sono un ragazzo che in certe cose vuole crederci e io credo che lei, anche se non riesce a risponderti, ti capisce e capisce il tuo affetto per lei. Ti vede. Lo vede con gli occhi.